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Gigino saliva

 Continuiamo a pescare in quel vero e proprio pozzo di San Patrizio che è Cataneide, il recentissimo libro di Federico Romeo, edito da Città del Sole Edizioni, per scoprire come trascorreva il suo tempo “la meglio gioventù” di Catania, città di medie dimensioni del Meridione italiano, e la nostra attenzione si concentra su un gruppetto di studenti universitari, amici da sempre.
Gigino è uno di loro ed ha dei problemini, fisici e psicologici. Quelli fisici li risolve con il ricorso ad una zolletta di zucchero, proprio come ha fatto quella mattina che arrancava lungo la strada mentre si recava alla facoltà di Giurisprudenza.
Per quelli psicologici non c’erano zollette di zucchero utili alla bisogna, in compenso c’erano Franco e Carmelo che lo tenevano su di spirito durante l’estenuante rituale dell’immancabile struscio serale lungo il tranquillissimo “Viale”, il Corso Italia.
Ed erano discorsi di altissima caratura e di profondo significato.
Ore 18:
“Che cos’è la vita?!”
Un po’ domanda, un po’ estenuata esclamazione.
Ma la risposta lo è ancor di più.
Ore 20:
“E chi può dirlo?!”

Poi il discorso vira improvvisamente su temi meno estenuanti ed il dissacratore lo conosciamo già: Saro, proprio lui, e, dato che lo conosciamo già, la cosa non ci sorprende affatto.
Come sono diversi, questi ragazzi, dai nullafacenti perdigiorno Vitelloni di Fellini di un decennio prima!
Quelli consumavano le loro giornate e la loro esistenza nell’ozio, tra il caffè, il biliardo, le passeggiate, gli amori inutili, e come afferma Brunello Rondi, Fellini esprime il sentimento del vegetare, dell’inerzia, del rischioso svanire della gioventù.
I ragazzi raccontati da Federico Romeo, invece, pur nella loro ingenua, direi innocente, interpretazione dell’approccio del contesto in cui vivono e si esprimono, odorano di pulizia morale, di spirito di solidarietà e di amicizia.
La pulizia della sana provincia, quando la provincia è sana.

e. m.

CATANIA 17/03/2009:  Uno scorcio del  porto di Catania dominata dall'Etna

Gigino saliva

Nelle stesse ore un altro giovane universitario si dirigeva alla sede della facoltà di giurisprudenza. Aveva preso lentamente la salita di via Penninello e prima della metà dell’erta si fermò respirando affannosamente: cavò dalla tasca un rotoletto di carta azzurra ed ingoiò qualcosa.
Quella per lui era una maledizione che si portava appresso dalla prima infanzia, forse da quando era nato: debolezza congenita, rubricata in vario modo dai diversi medici consultati, che comunque lo costringeva a gesti e soluzioni impensabili per i suoi coetanei.
Il quadratino di zucchero gli fece bene, come previsto, e in capo ad un paio di minuti fu in grado di riprendere.
Anche negli anni del liceo ogni mattina ingoiava il suo carburante supplementare ai piedi dell’ultimo tratto di via Oberdan, quello che sale da piazza Trento e che, non a caso, fino agli inizi degli anni Cinquanta era interrotto da una scalinata.
Magro e pallidissimo, aveva però maturato negli anni una volontà ferrea di raggiungere buoni risultati negli studi e adesso portava avanti il suo sogno della laurea, e di una dignitosa professione, che lo avrebbe compensato dei deficit naturali, tra cui la timidezza e la difficoltà nel dialogo e nell’approccio esterno, specie con l’altro sesso.
Reggeva psicologicamente grazie a Franco e a Carmelo, due amici di vecchia data, conosciuti in prima media, coi quali si incontrava pressoché ogni giorno: oltre che a scuola, e poi all’università, nello struscio pre-serale quando il passaggio dalla giovinezza all’età adulta incoraggia i dialoghi sull’universo mondo.
Ma mentre il grosso della gioventù catanese consumava il rito sciamando in via Etnea, loro avevano scelto quale habitat idoneo alle profonde riflessioni il Corso Italia, più genericamente detto “il Viale”, i cui marciapiedi ampi e meno frequentati promettevano tranquillità e lontananza da soggetti non desiderati. Anche se ciò non accadeva sempre.
“Che cos’è la vita?!”
si chiedeva retoricamente Carmelo con un sospiro alle ore 18.
“E chi può dirlo?!”
Gli rispondeva altrettanto retoricamente Gigino alle ore 20, avviandosi verso casa, dopo che i tre erano passati disinvoltamente dalle ragioni dell’esistenza alle utopie di rivolgimenti sociali e familiari, dalle religioni all’ateismo, discutendo e accalorandosi su tesi e antitesi di ciascuno.
Ma a vent’anni si discorre anche d’altro.
“Siete sempre così seriosi!” li interruppe in un tardo tramonto autunnale un giovane appena intravisto all’Università, che insieme ad altri bighelloni faceva cannello con risate e schiamazzi nel marciapiede di destra del viale, direzione mare.
“Veramente adesso l’argomento era sex e omosex replicò Franco risentito.
“Come dire dalle poppe ai puppi!”
Sghignazzò l’altro, compiaciuto della propria prontezza.
Era Saro, indubitabilmente Saro, che da allora entrava nei loro destini.
Il primo a gravitare nell’orbita di Saro fu Franco, che era curioso di verificare come vivesse un coetaneo che si era presentato fin dal primo istante come un soggetto disincantato, poco incline alla riflessione, con il sesso in testa e lo sport nei muscoli: l’antitesi di quello che era lui e l’immagine di ciò che non sarebbe mai voluto diventare.
Beninteso, fu Saro a fare il primo passo, invitandolo a studiare a casa propria, avendo intuito che la dedizione allo studio e la cultura di base del neo-collega avrebbero potuto giovargli; non foss’altro che per tacitare le ansie della madre che lo considerava un perdigiorno incallito, più che mai incontrollabile all’Università.
Ma entrare in contatto con Franco significava acquisire il pacchetto completo: così pure Carmelo e Gigino furono della partita. Anche se quest’ultimo recalcitrò fino all’ultimo, un po’ perché era conservatore nelle amicizie e molto perché si vergognava del suo fisico, e cedette soltanto “per proteggervi dal contagio della stolidezza e dall’infingardaggine”, come motivò forbitamente e altrettanto ipocritamente ai due amiconi.

Malgrado le premesse, i mesi seguenti videro frequentazioni abbastanza intense, anche se discontinue e talvolta condite da minacce di non vedersi mai più, dopo i ritardi e le “buche” agli appuntamenti dati da Saro, sempre fantasiosamente e simpaticamente giustificate dal fedifrago.
Per essere certi di trovarlo, dovevano fargli la posta nelle palestre cittadine alle partite ufficiali della squadra di pallavolo, dove militava come valente schiacciatore dall’alto del suo metro e ottantacinque.
Non lo confessavano, eppure si aspettavano qualcosa da lui, qualcosa che era fuori dalla loro portata.

(Commento d’apertura e selezione dei brani dal libro di F. Romeo, CATANEIDE, Città del Sole Edizioni, a cura di Enzo Movilia)

(continua)

6 Commentia“Gigino saliva”

  1. Ho frequentato l’università a Napoli a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta e conosco ogni mattonella di via Caracciolo e di piazza Plebiscito perchè con Mario, Peppe e Gennaro facevamo chilometri e chilometri, avanti e indietro, muti come pesci per intere mezz’ore e nessuno di noi si è mai chiesto per quale motivo ce ne stavamo zitti.
    In effetti non avevamo bisogno di parlarci perchè sapevamo già tutto di noi, ma era quel bisogno di sentirsi rassicurati che c’eravamo sempre e comunque e se uno di noi avesse avuto un problema di qualsivoglia natura, poteva contare sugli altri. Erano rapporti quasi parentali, forse anche di più, e la solitudine così temuta oggi, noi non sapevamo nemmeno cosa fosse.

  2. Saro incarna alla perfezione la figura del personaggio, un po’ menefreghista e un po’ cialtrone che non manca mai nel gruppo degli amici, ovunque essi siano. Cialtronello sì, anche se il termine è esagerato e un po’ scorretto, ma anche buono e generoso. Quanto al fastidio che a volte si prova per il nuovo arrivato in un gruppo, è chiaro che non è riferito alla persona in sè, ma al timore che egli possa destabilizzare la compattezza del gruppo. Succede dappertutto, non solo nel gruppo degli amici, ma le novità inquietano sempre.
    A me piace molto il modo con cui l’Autore racconta questi scampoli di vita, così asciutto, senza fronzoli e con un’aggettivazione adeguata e mai eccessiva.
    Aspetto con interesse il seguito.

  3. L’immagine di Gigino che arranca lungo la strada che non mi pare sia particolarmente ripida (conosco Catania ed anche la zona universitaria) mi riporta alla mente le lamentele di mio figlio adolescente quando doveva fare una rampa di scale.
    Per quanto riguarda le nuove amicizie, non mi sorprende affatto l’atteggiamento guardingo verso il nuovo arrivato è comune a tutte le combriccole, se poi Saro riesce anche a capitalizzare il vantaggio del nuovo apporto, finirà anche l’ansia della novità in coloro che la provano.
    E’ cosa scontata da sempre, provare per credere.

  4. Ore 18 “Che cos’é la Vita?!”
    Ore 20 “E chi può dirlo?!”
    Un dialogo tra amici che sembra estemporaneo ed assurdo, ma noi ragazzi degli anni Sessanta lo facevamo con convinzione e serietà. Salvo un minuto dopo passare a discorsi scemotti in maniera sconcertante e se vogliamo anche avvilente per ragazzi di vent’anni e passa.
    L’alternativa?
    Le ragazze, ovvio, ma ne parlavamo talmente tanto che alla fine eravamo stanchi ed il più delle volte anche avviliti, perchè ne parlavamo solo perchè non ci filavano per niente.
    Raramente studiavamo da soli e una volta a casa di uno, un’altra a casa di un altro, bastava mezz’ora per sbrigare la pratica e dopo erano ore di tresette, briscola e scopa. La coppia perdente pagava la pasterella per gli altri.
    Darei non so che cosa per rivivere una giornata di quelle trascorse a non far nulla alla villa comunale di Napoli assieme ad altri sfacendati come me, ma a ventidue anni fui costretto a cambiare abitudini e registro perchè mio padre, militare di carriera, fu trasferito a Torino e addio spensieratezza.
    Come finì?
    Finì in bellezza. Vinsi un concorso alle Partecipazioni Statali e mi sposai con Roberta, la compagna di scuola del quarto e quinto anno di ragioneria che faceva sbavare tutta la classe, escluso me.

  5. E Renatina che fine ha fatto?

  6. Nel gruppo di amici sono rappresentati tutti i caratteri, dal taciturno al logorroico, dallo spacconcello al timido, dal belloccio al bruttino dal simpatico all’insopportabile, e questo non è altro che la riproduzione in piccola scala del mondo che ci circonda. Una cosa però è diversa, anzi un paio di cose: la sincerità e la spontaneità che negli adulti evapora con gli anni, ma anche la generosità e la disponibilità dei ragazzi dai quali gli adulti dovrebbero imparare.
    Ciò detto, mi sembra di vedere Gigino arrancare, fermarsi per la zolletta di zucchero da succhiare e poi ripartire con passo stanco. Ma forse lo scirocco taglia gambe di Catania c’entra qualcosa e non è solo fiacca congenita quella del povero Gigino.

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