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Gli splendori della Superba

"Giovan Carlo Doria", di Pieter Paul Rubens.

“Giovan Carlo Doria”, di Pieter Paul Rubens.

                                                   Gli splendori della Superba

di Antonio Mazza

  Città davvero particolare Genova, che all’inizio, quando ti si apre innanzi con il suo digradare di case verso il porto, ti lascia un po’ perplesso, addirittura indifferente poi, appena cominci a penetrarne il tessuto urbano, i carrugi, le piazzette, le chiese ed i palazzi con i loro turgori barocchi, allora tutto cambia. Ed è una lenta, progressiva e morbida seduzione che ti ammalia e comprendi cosa intendeva Petrarca quando la definì “Superba”, una città piena, ricca, densa di umori, dove le generazioni hanno sedimentato un patrimonio di Bellezza. Ed è appunto quella che viene riproposta alle Scuderie del Quirinale, “Superbarocco”, gli anni d’oro di Genova regina del mare, dove alle splendore della vita locale e dei commerci, faceva da solare controcanto lo splendore delle arti.  Il 1600 è un secolo-chiave per Genova, con eventi drammatici, come la guerra con il Ducato di Savoia, la peste, il bombardamento della flotta navale francese, ma sempre la città risorge, più bella di prima. E la pittura raggiunge alte vette, stimolata dalla presenza di Rubens, dal suo dinamismo compositivo, l’uso del colore, la ricchezza del linguaggio pittorico, come traspare da “Giovan Carlo Doria”, ritratto del grande mecenate a cavallo, un fulgido fermo immagine dove risalta soprattutto il destriero e “I miracoli del beato Ignazio di Loyola”, capolavoro tutto di movimento. Poco lontano figurano le tele di un illustre allievo di Rubens, Antoon van Dyck e la differenza con il maestro è nei tratti più soffici, un gusto per l’allegoria, il colore a tratti vivido. Così in “Paola Adorno Brignole-Sale”, la rosa quasi sfiorita nella mano a ricordare la fugacità della vita, “Anton Giulio Brignole a cavallo”, rappresentazione più sobria di quella rubensiana, “Agostino Pallavicini in veste di ambasciatore al pontefice”, dove il rosso del mantello quasi tracima dal quadro.

"La cuoca", di Bernardo Strozzi.

“La cuoca”, di Bernardo Strozzi.

  L’influenza della pittura fiamminga in Italia si avverte dal XV secolo ( Antonello da Messina) concretandosi poi in presenze attive sul territorio, Venezia, Firenze, Roma e naturalmente Genova (vedi le ricche collezioni di Palazzo Bianco). Cornelius de Wael ne fu un esponente di rilievo, come risulta dai quattro episodi de “La parabola del figliol prodigo” (in origine otto quadri). E di sapore fiammingo, misto a umori lombardi e un caravaggismo di fondo è “La cuoca”, di Bernardo Strozzi, ricco esempio di “pittura di genere” (con arguti richiami allegorici ai quattro elementi). Suo anche un dolce e meditativo “Madonna col Bambino e San Giovannino”, che gli meritò non poche critiche (l’abito sgualcito della Vergine, il piede nudo, rimproveri che lo accomunano al Caravaggio de “La Madonna dei pellegrini”). La pittura rispecchia una società ricca, dove prospera il commercio e dove transita l’oro del Nuovo Mondo, e l’opulenza è ben rappresentata dai magnifici bacili e versatoi in argento con scolpiti eventi storici. Sfarzosi ma con gusto.

"Morte di Catone Uticense", di Gioacchino Assereto.

“Morte di Catone Uticense”, di Gioacchino Assereto.

  Molti i nomi di pittori graditi alla committenza nel cui stile si avvertono echi delle scuole lombarda ed emiliana: Andrea Ansaldo (il vivace “Esther e Assuero”), Orazio De Ferrari (un interessante ”Ecce Homo”: Roberto Longhi definì il suo linguaggio pittorico “barocco naturalistico), Gioacchino Assereto (il corposo “Alessandro e Diogene” e “Morte di Catone Uticense”, notevole per il suo intrigante gioco di luci, che ricorda molto la tecnica di Gerrit von Honthorst, Gherardo delle Notti, forse presente a Genova ai primi del ‘600), Valerio Castello (“Diana e Atteone con Pan e Siringa”, dal timbro morbido e visionario), Stefano Magnasco (“Il matrimonio mistico di Santa Caterina”, di delicata fattura), Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, all’epoca richiestissimo (“Tanto che non fu a suo tempo principe grande che di opera di Castiglione non volesse far ricco suo palazzo o galleria”). Di lui, che soggiornò a Roma, abbeverandosi alle fonti classiche (e si sente), “Sacrificio di Pan” , “Adorazione dei pastori”, ”Il sacrificio di Noè dopo il diluvio”, opere in cui la pienezza creativa ben si accorda al vigore stilistico. Degno di nota anche Giulio Benso, “Tentazioni  di sant’Antonio Abate”, dall’inedito gioco prospettico.  Nella prima metà del XVII secolo soggiornano a Genova Simone Vouet e Giulio Cesare Procaccini, lasciando cospicue testimonianze pittoriche (del primo un suggestivo “San Sebastiano curato da Sant’Irene e da una ancella”, del secondo una sensuale “Estasi della Maddalena”). Poi, nel 1656 la peste che decima la popolazione e crea il vuoto fra i pittori, che però sarà presto colmato da personalità di rilievo come Domenico Piola, del quale si può ammirare una sontuosa “Annunciazione”, pala d’altare dalla basilica della SS.Annunciazione del Vastato (sono esposti anche bozzetti dei soffitti affrescati di varie chiese genovesi, di Giovan Battista Carlone ed altri, d’altronde quasi tutti i nomi citati hanno contribuito a decorare chiese o palazzi nobili. E’ presente anche Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccia, genovese, per quel miracolo d’inventiva che è il soffitto della chiesa romana del Gesù). Ma il secolo volge verso la fine e il Barocco sta giungendo alla sua maturità, come ben documenta il bellissimo “Transito di santa Scolastica”, di Gregorio De Ferrari, con la scala ascensionale di angeli, evidente richiamo alla biblica Scala di Giacobbe, che ne esprime tutto l’intrinseco misticismo.

"Ratto di Elena", di Pierre Puget.

“Ratto di Elena”, di Pierre Puget.

  La scultura. Praticamente negletta fino ad oltre la seconda metà del 1600, quando il francese Pierre Puget lavora a Roma come assistente di Pietro da Cortona e conosce l’arte del Bernini. Una preziosa esperienza che sviluppa nella sua bottega dove nasce così il barocco genovese su marmo, un filone nuovo e affascinante, come si deduce dal vorticoso “Ratto di Elena”, di forte tensione plastica. La strada è aperta e due sono i nomi che si impongono, Filippo Parodi e Anton Maria Maragliano, il primo, influenzato dal Puget, con un raffinato “Cristo alla colonna”, l’altro specializzato in opere lignee, con spettacolari macchine processionali come il “Battesimo di Cristo” (era membro delle “Casacce”, confraternite per le quali realizzava composizioni sacre). Ma qui viriamo verso il rococò, e lo testimoniano due opere assolutamente eccezionali, soprattutto la seconda: “La lupa con Romolo e Remo”, di Francesco Biggi, e “Giove in forma di cigno con Elena e Polluce”, di Bernardo Schiaffino. E poi il grande Alessandro Magnasco, figlio di Stefano, nel cui stile tutto capricci e di una fantasia un po’ macabra, sono evidenti echi della pittura veneziana, del luminismo inquieto di Salvator Rosa e della vena picara dei Bamboccianti. Di lui segnalo “Paesaggio con domenicani in meditazione”, di una sensibilità quasi pre-romantica, degno suggello di una mostra densa, per qualità e quantità (oltre 100 opere esposte). Una mostra davvero “Super”.

"Battesimo di Cristo", di Anton Maria Maragliano.

“Battesimo di Cristo”, di Anton Maria Maragliano.

“Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco”, alle Scuderie del Quirinale fino al 3 luglio. Tutti i giorni h.10-20, biglietto intero euro 15, ridotto 13, over 65 euro 10, solo lunedì e martedì dalle h.15. Diritto di prenotazione 2,50. La mostra è a cura di Piero Boccardo, Jonathan Bober, Franco Boggero.  Allegato al biglietto “Cinquanta parole superbe”, piccolo dizionario genovese di Annarita Bruno e Lilli Ghio. Molto intrigante.

"Paesaggio con domenicani in meditazione", di Alessandro Magnasco.

“Paesaggio con domenicani in meditazione”, di Alessandro Magnasco.

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