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“Souvenir d’Italie” di Angelo Mancini a Monterotondo

di Cinzia Baldazzi.

«Non si scrive un poema con le idee, ma con le parole».Il monito di Stephane Mallarmé, maestro del Simbolismo francese, non poteva essere più adatto a far da epigrafe a “Souvenir d’Italie”, la silloge poema di Angelo Mancini presentata nella Sala Consiliare del Municipio di Monterotondo sotto la puntualeregia di Edgardo Prosperi. Stampato dall’editore Manni, l’antologia allinea settantatré “stanze”, componimenti in metri cortissimi, che forse l’autore vorrebbe leggessimo tutti d’un fiato, sincopati, scanditi da “a capo” applicati con sapienza, mestiere: «Il poeta / vuole, però, / esprimere / sempre / liberamente / il suo pensiero / estetico / (e non solo) / su ogni cosa / senza ipocrisie / opportunismi / o altro che sia» [XLII].
I brani letti dagli attori illuminano sensi e significati differenti, con una distribuzione voluta dei testi: seri, drammatici, per il timbro scuro di Tony Fusaro; “d’attacco”, movimentati, per l’eloquio discorsivo di Alberto Patelli; distesi, ammiccanti, ardui per Donatella Belli, la quale egregiamente espone un difficile pezzo su Pasolini.

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Tre voci per un volume capace, in un eminente taglio storico-filosofico, di rimodulare il nobile genere dell’invettiva, il cui repertorio attraversa la storia umana: da Catullo, Marziale, Giovenale all’800 di Guerrazzi, dall’”Apocalisse” di Giovanni a Pierpaolo Pasolini, da Savonarola, Bruno e Aretino fino a Edoardo Sanguineti, tralasciando le prove episodiche di Dante, Petrarca, Foscolo.
Il biasimo maieutico di Mancini non riguarda singole personalità (sebbene non manchino nelle pagine di “Souvenir d’Italie”nomi, luoghi, date, avvenimenti). Lo scrittore si rivolge con amara irruenza allo status dell’uomo di oggi in vicende ritenute a dir poco deplorevoli: il consumismo esasperato, la dipendenza malefica dalla tecnologia, il degrado della scuola, dell’istruzione, l’inesorabile circo mediatico, la malinconica decadenza della famiglia come valore. Scorrono così, in un progressivo innalzamento di delusione e contrarietà, pari solo allo sconcerto, immagini di discoteche, smartphone, tatuaggi, fast food, palestre, videogiochi, reality televisivi, computer, piercing, supermercati, selfie, abiti griffati, apericene, Youtube, Twitter, Facebook…
Di fronte all’oblio del passato o all’assenza del futuro, nel trionfo di un presente effimero, trapela una conferma di resistenza: «Ad ogni modo / sopravvivo lo stesso / con la mia biro / e le mie matite / i miei quaderni /(a righe e a quadretti) / e il mio vocabolario»[LVIII].
Seduto negli scranni dei politici (quasi per un contrappasso), Mancini non parla tanto, preferisce ascoltare chi è lì per render merito al libro. Il poeta Sandro Angelucci ha l’onore di introdurre il concetto di “poetica”, a indicare la gammadi scelte individuali dell’artista, pure con riferimento a esperienze letterarie ed estetiche precedenti: «Una poetica del contrasto», spiega Angelucci, «presa di posizione di un poeta che caparbiamente non smette di lottare». Il critico Franco Campegiani rammenta la “melica”, forma esordiente di verso cantato (μελικὴποίησις), accompagnato da cetra o flauto. In seguito, con un salto di millenni, cita l’impareggiabile magistero di Michel Foucault nell’indagare i complessi meccanismi del discorso nell’attuale circuito comunicativo di massa, incluso il gesto di rinuncia alla “parolepoétique”: «Mancini crede nella parola viva che nasce dal silenzio», precisa Campegiani. Segnale di una gioventù trascorsa insieme all’autore, ecco Caterina Manco, ora presidente della meritoria Università Popolare Eretina. Per definire la conoscenza di una vita, usa un termine a me caro: «Una lunga frequentazione».
Subentrano al microfono gli amici: il poeta Alessandro Ristori, il giovane anche giornalista Andrea Lepone, l’attore Massimo Chiacchiararelli. Da parte mia, ho cercato di scovare fonti insigni a sostegno del pessimismo manciniano: primo fra tutti Edmund Husserl e la condanna delle speranze. Il filosofo tedesco scriveva nell’Ottocento-Novecento, quando ancora non padroneggiavano i condizionamenti dei mass-media, della politica: appunto, i due maggiori nemici della Weltanschauung di Angelo Mancini.
“Souvenir d’Italie” non costituisce,però, una semplice accusa contro la società odierna: la “trovata” di incastonare i settantatré poemetti tra un prologo e un epilogo accende una luce inedita sulla raccolta. Angelo Mancini si ritrae in un letto d’ospedale, imbottito di sedativi dopo un intervento chirurgico, con le idee a vagare tra disordinate, confuse immagini. Sopravviene poi il sonno (almeno così sostiene). Al risveglio, quanto tempo è passato, si chiede? «Ho pensato / ho scritto / virtualmente / senza carta e penna / versi deliranti / pietre infuocate / Un breve / lunghissimo incubo / ad occhi aperti».
Insomma, un angoscioso itinerario di stampo onirico, all’altezza di ricordare lo splendido racconto di Jorge Luis Borges “Il miracolo segreto”, dove il protagonista destinato alla fucilazione ottiene dall’Onnipotente una specie di proroga per correggere e completare il romanzo con le esclusive armi della memoria, della mente, del ragionamento. Del resto lo scrittore argentino è citato nel brano XXXV, con Ungaretti e Luzi, tra coloro i quali non hanno conquistato il Nobel per la Letteratura (Mancini non può non considerare l’ironica risposta di Borges a chi rammentava questa mancanza: «Secondo me, loro sono convinti di avermelo già dato»).
A scongiurare il rischio di confinare il nobile intento in una serie di “no” (magari da condividere), in un elenco di rifiuti (seppure sacrosanti), in un albo di verdetti privi di appello (bensì giustificati), Angelo Mancini seleziona lo strumento delle rimembranze non in chiave nostalgica. Non è un “come eravamo”, piuttosto “come dovremmo essere”: non una sorta di continuum antagonista al mutare della storia, invece suo complice.
Trovano quindi posto i richiami a persone oggi non più tra noi, ma le cui opere sono sempre lì, a evidenziare la possibilità di una vita umana e degna: i racconti di Dino Buzzati, le polemiche di Pierpaolo Pasolini, i programmi tv di Mario Soldati, gli appunti di Giorgio Manganelli, i film di Federico Fellini, i recitativi di Giuseppe Ungaretti.
Sinoall’impagabile trovata della stanza XXXIII, aperta dall’invocazione «Grande Vasco! Grande Vasco! Grande Vasco!». Rossi? No, Pratolini…

cover libro

Angelo Mancini
“Souvenir d’Italie”
Prefazione di Aldo Onorati
Manni Editori, San Cesario di Lecce, 2018, pp. 192, € 18,00

4 Commentia““Souvenir d’Italie” di Angelo Mancini a Monterotondo”

  1. MASSIMO CHIACCHIARARELLI // 11 febbraio 2019 a 19:12 // Rispondi

    L’articolo ha fotografato perfettamente la piacevole serata e dato ampia informativa sui contenuti dell’opera di Angelo Mancini.Grazie.

    • Cinzia Baldazzi // 16 febbraio 2019 a 18:30 // Rispondi

      Ti ringrazio, Massimo, perché come me quella sera hai contribuito a costruire un panorama il più possibile esaustivo della poetica di Angelo Mancini.

  2. Franco Campegiani // 13 febbraio 2019 a 20:57 // Rispondi

    Davvero illuminante questa nota di Cinzia Baldazzi su “Souvenir d’Itale” di Angelo Mancini, poeta assai singolare, testimone del disagio e della crisi valoriale dell’uomo d’oggi. E’ un interessante e dottissimo excursus su quelle radici culturali cui il poeta è visceralmente legato, che alimentano la sua asprissima critica nei riguardi dei nostri tempi. E tutto ciò non in chiave nostalgica, bensì utopica, tenendo a mente non “come eravamo”, ma “come dovremmo essere”.
    Franco Campegiani

  3. Cinzia Baldazzi // 16 febbraio 2019 a 18:32 // Rispondi

    Sono onorata, Franco, che tu abbia condiviso la mia chiave critica nel panorama della letteratura della quale fa parte Angelo Mancini.

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