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Musica e dialogo

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                                                                      Musica e dialogo

di  Antonio Mazza

  L’odore di bruciato, insieme a qualche tizzone portato dal vento, arrivava fino a Porta Ostiense, in quella calda notte di luglio che avvolgeva la Campagna Romana. San Paolo, l’antica basilica costantiniana, era divorata dal fuoco, le mura, i mosaici, le colonne, tutto si sgretolava, finché rimasero in piedi sono le navate laterali, con la parte centrale crollata e, nel fondo, l’abside miracolosamente indenne. Poi la ricostruzione, sotto Pio IX, nelle forme che sono giunte fino a noi, ma il ricordo di quella tragica notte estiva del 1823 si può ancora leggere nei frammenti di colonne anneriti che giacciono accanto alla basilica. E,  due secoli dopo, viene celebrato l’anniversario con “Religioni Unite in Musica” un concerto ecumenico della Jerusalem Symphony Orchestra diretta da Yeruham Scharovsky (e un secondo, non meno importante anniversario: il 30° delle Relazioni Diplomatiche fra lo Stato di Israele e la Santa Sede).

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  Un concerto nello spirito delle encicliche di Francesco, “Laudato sì” e “Fratelli tutti”, e in quello ebraico del “Tikun Olam”, solidarietà, rispetto, quindi una comune visione universale del rapporto fra culture diverse e con nostra Madre Terra. E l’inizio, con Bach e la sua profonda religiosità, è proprio come disvelare un orizzonte  di luce: “Jeusus Bleibet Meine Freude”, dalla Cantata 147, con la sua dolcezza, quasi una nenia che culla l‘anima. Una serenità che si ripete con la “Ave Maria” di Franz Schubert, dove all’orchestra si accompagna il violoncello della giovanissima Danielle Akta. Una sonorità decisa ma insieme delicata, come nel successivo “Kol Nidrei” di Max Bruch, sempre per violoncello e orchestra. E’ la preghiera che introduce alla festività dello Yom Kippur, quando vengono sciolti i voti che non si sono potuti eseguire, brano di grande suggestione (e, senza dubbio, il più famoso di Bruch). Anche qui una grande dolcezza unita ad un pathos di fondo che dona al brano musicale una connotazione fortemente introspettiva che sfuma in tonalità tardo romantiche.

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  Ma il senso del concerto, come già detto, è ecumenico, quindi dare voce (melodica) alle tre religioni abramitiche ed ecco Nizar Elkhalter, arabo-israeliano, compositore nonché membro dell’orchestra, con “Mediterranean Suite”. Un pezzo di colore, come suggerisce il titolo, denso di effluvi mediterranei, appunto, con un che di esotico fra le righe. E poi il magnifico finale, la Sinfonia n.4 “Italiana” di Felix Mendelssohn, che irrompe con la sua solarità squisitamente latina, scoperta dal giovane Felix sollecitato dall’amico Goethe ad intraprendere il suo personale Gran Tour. Venezia, Firenze e poi Roma, dove abita e lavora in piazza di Spagna e dove conosce Berlioz e Thorvaldsen. Vive l’Urbe e la sua gente, avverte in sé il fascino antico di una città millenaria (“Il passato di Roma mi appare come la storia stessa”), scrive (le sue deliziose “Lettere dall’Italia”) e compone musica. La sinfonia n.4 è la sintesi del suo viaggio che include anche Napoli e Pompei, colore e memoria del passato, e tutto trascolora in un “melos” vivace e affettuoso.

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  Il primo movimento è una vibrazione di luce, la stessa luce che si ritrova nei quadri del Lorenese, calda e liquida al contempo, che ti dà un’interna gioia di vivere. E’ la particolare luce italica del XIX secolo, il paesaggio come una prospettiva libera che avvolge il viandante nel suo abbraccio (qualcosa oggi sempre più raro e in costante pericolo). Pacato invece il secondo movimento, ispirato ad un episodio napoletano (una processione religiosa), lento e solenne nel suo svolgersi, seguito da un frizzante tempo di minuetto, elegante ed arioso, poi di nuovo il vitalismo e la solarità dell’inizio. Qui erompe la vena popolare, nei ritmi del salterello e della tarantella, sublimata dalla limpidezza del linguaggio musicale ed è un finale che il tocco della Jerusalem Symphony Orchestra, ben diretta da Yeruham Scharovsky rende in pieno. Davvero un bel modo di celebrare i duecento anni della rinascita di quella che il Belli, pur mangiapreti, chiamava “La basilica nostra de San Pavulo”.

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