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Capolavori francesi al Vittoriano

 Una nota di tristezza ha caratterizzato la conferenza introduttiva alla mostra dei capolavori del Musée d’Orsay parigino esposti al Vittoriano. Il ricordo di Gianni Borgna, che fu assessore alla cultura del Comune di Roma per due legislature, compito che svolse con cura e sensibilità. Personalmente lo ricordo come una persona gentile e sempre disponibile, davvero una figura rara di questi tempi ed è giusto che la mostra sia dedicata alla sua memoria, lui che fece molto per la cultura di questa città.

  Il Musée d’Orsay venne inaugurato nel 1986, riutilizzando la vecchia Gare d’Orsay, ristrutturata in varie fasi da architetti di fama fra i quali, ultima e decisiva, la nostra Gae Aulenti. Raccoglieva opere in parte originariamente nel Musée du Luxembourg, istituito nel 1818 da Luigi XVIII,  e nel tempo si arricchì con donazioni e lasciti, gli impressionisti quale nucleo principale. Attualmente, per la varietà e ricchezza di stili  rappresentati, si può definire un “museo polifonico”, come ha dichiarato Guy Cogeval, Presidente dei Musei d’Orsay e de l’Orangerie. E un magnifico assaggio di questa partitura a più voci è godibile da oggi e fino ad inizio estate al Vittoriano.

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  Cinque “capitoli” ed una sessantina di opere che illustrano l’evoluzione pittorica in terra di Francia dalla seconda metà dell’800. “Accademia e Nuova Pittura”, cioè il graduale sganciarsi da moduli accademici, improntati ad un classicismo ora di limpida perfezione (il raffinato “Gioventù e Amore”, di William Bouguereau), ora più enfatico (il teatrale “Tamara”, di Alexandre Cabanel). E irrompe sulla scena Courbet, con il suo realismo giudicato scandaloso, punto di rottura con la pittura romantica (Delacroix in particolare) verso toni di maggior realismo (anche se “Donna nuda con cane” non ha la forza dirompente di “Le bagnanti”).

  Ormai è iniziata una nuova fase espressiva ma per un po’ i vari moduli coesistono, come appare nel secondo capitolo, “Il paesaggio e la vita rurale: dal classicismo all’impressionismo”. Ecco un idilliaco Corot che, intrisa la sua tela delle particolari magie della luce italica (come già Poussin e Lorrain, maestri di riferimento), apre la strada agli impressionisti. E Jean-François Millet, quello del celebre “Angelus”, uno dei migliori esponenti della Scuola di Barbizon, il realismo nel paesaggio, pur se con un tocco contemplativo (“Pastorella con il suo gregge”). Ma ormai siamo al “plein air”, la luce che si sfalda come in Monet (“Le barche”, splendido, ti par sentire lo sciacquìo delle onde e il vento che gonfia le vele) o si raggruma nel “pointillisme”, la pittura composta di punti-colore, di Georges Seraut (“Giovane contadino vestito di blu”). E poi Sisley, Pissarro, Cézanne, modi diversi di narrare le cose e la luce che bagna le cose.

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  Ma la realtà preme e “Rappresentare la propria epoca: la vita contemporanea” significa recepire il messaggio di una società in tumultuosa evoluzione, con gli spazi urbani che dilatano, la rivoluzione industriale e il formarsi delle classi. Il popolo minuto, il proletariato, diventa soggetto di pittura (è il tempo delle teorie socialiste di Proudhon e degli scritti di Zola), come in “Gli scaricatori di carbone”, di Claude Monet, o “Il giorno di visita all’ospedale”, di Henry Geoffrey, la poesia degli umili (vedi anche “La lezione di catechismo”, di Jules-Alexis Muenier, di gusto rurale). Ma c’è il trascorrere quotidiano con i suoi attimi incantati (“Ragazze al pianoforte”, di Renoir, quasi un pastello per la sua calda densità cromatica) e la vita colta nell’attimo (la fresca sinuosità di “Ballerine che salgono una scala” e il gesto in divenire di “L’orchestra dell’Opéra”, di Edgar Degas).

  “Stati d’animo. La pittura simbolista”, l’irruzione dell’inconscio sulla tela (si stanno diffondendo le teorie di Charcot riprese ed ampliate dal suo alunno, Sigmund Freud), che si traduce in  un’inquietudine compositiva (“Félix Vallotton”, di Edouard Vuillard, tutto come sfocato). E’ il momento dei Nabis, la cui ricerca cromatica immette nel V capitolo della mostra, “Dopo l’impressionismo. Verso le avanguardie del XX secolo”. Dal geometrico fulgore di “Les Andelys” di Paul Signac al primitivismo de “Il pasto” di Paul Gauguin, dall’onirico “Giochi d’acqua” di Pierre Bonnard all’assoluto di luce-forma di “Vétheuil, tramonto” e “Il giardino dell’artista a Giverny”, splendide opere di Claude Monet, dal sintetismo di “Donne bretoni con l’ombrello” di Emile Bernard a quasi un’anticipazione dei Fauves in “L’italiana”, di Van Gogh.

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  Le opere in mostra sono dunque il riassunto di una delle fasi più stimolanti della cultura europea da metà Ottocento ai primi anni del Novecento. Un percorso antologico di notevole spessore, con opere di grande bellezza quando non autentici capolavori. E, fra le righe, il dolce sapore della Belle Epoque, che poi svanirà nel fumo delle trincee della Grande Guerra.

“Musée d’Orsay. Capolavori” al Vittoriano fino all’8 giugno.

Lunedì- giovedì h.9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-23, domenica 9,30-20,30.

Biglietto euro 12, ridotto 9.

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