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G.Morandi, metafisica degli oggetti

  Una bottiglia, una ciotola in ceramica, una scatola di latta, un vaso, una conchiglia. E’ la sintesi del suo mondo che apre la mostra: la sintesi del particolare universo morandiano, racchiuso in una luce felpata che scaturisce dalle profondità dell’essere. “La mia è una natura incline alla contemplazione”, è vero, l’intero corpus della sua pittura è questo, un lungo e appassionato itinerario meditativo che trasfigura le cose fino a svelarne la loro essenza. E te ne rendi conto osservando le 150 opere esposte al Vittoriano, quarant’anni dopo la famosa mostra postuma organizzata  da Cesare Brandi. Giorgio Morandi, 1890-1964, l’artista che, pur lambito da importanti correnti pittoriche (futurismo, cubismo, metafisica) restò sempre se stesso, estraneo ad ogni scuola.

  Un figurativo, indubbiamente, perché tale il linguaggio che promana dalle 150 e passa opere qui esposte, un centinaio di dipinti ed il resto incisioni, l’attività parallela che integrava quella pittorica. Una nutrita produzione di acqueforti dove il segno, grazie ad un’equilibrata morsura, crea contrasti tonali particolari, presenti peraltro anche nei disegni e negli acquerelli. La produzione grafica di nature morte, paesaggi, fiori, cioè i tipici soggetti morandiani, esposta talvolta insieme alle matrici in rame conservate all’Istituto Nazionale per la Grafica, è un po’ l’immagine speculare di quella pittorica. Spesso s’incontrano due versioni dello stesso tema, l’una su tela la seconda su lastra, in un percorso che si presenta nel suo complesso molto omogeneo.

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  In effetti c’è una continuità fra i soggetti-tipo della tematica morandiana ed è la ricerca condotta oltre le apparenze e racchiusa nel segno che le avvolge con un tocco morbido, a tratti quasi rarefatto. Si veda la copiosa produzione di nature morte dove, superata la fase movimentista (notevoli soprattutto le opere d’ispirazione metafisica), Morandi tende ad una narrazione pittorica dai toni mai molto insistititi, perché ciò che lui traccia è una sorta di linguaggio dell’anima (fa eccezione la splendida Natura morta del 1928, dai colori accesi, una macchia policroma). E, superata anche la fase cubista, natura morta del 1914, e quella cezanniana (Cézanne è stato uno dei suoi punti di riferimento), con un’altra ottima Natura morta del 1919, inizia il suo cammino solitario.

  Un cammino che, quando dipinge gli oggetti abituali (vaso, brocca, bottiglia), assume un sapore di intimismo domestico, alla Chardin, un clima ben espresso dal colorito quasi sfumato e dalla soffice plasticità dell’insieme. Caratteristiche più evidenti nella serie dei fiori, dove la naturale tendenza alla composizione geometrica ed alla simmetria delle singole parti raggiunge qui il punto d’armonia. E’ quel discorso tutto interiore che Morandi porta avanti con coerenza, rappresentare le cose per quanto esse celano dietro (“Per me non vi è nulla di astratto: peraltro ritengo che non vi sia nulla di più surreale e di più astratto del reale”).

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  E tuttavia non si può negare che un simile modo di procedere tradotto in immagini pittoriche, particolarmente a tema fisso, possa risultare monocorde, facendo alla lunga perdere il senso del tutto. In tal modo la sequela di nature morte può provocare come un che di claustrofobico nello spettatore, ma è un’impressione riscattata in pieno dalla serie dei paesaggi. Qui la prospettiva morandiana acquista respiro e se lo spazio chiuso del Cortile di via Fondazza, la casa di Bologna nella quale egli visse, riecheggia l’altro, anch’esso definito, degli oggetti, pure v’è un balzo all’esterno. Ed è lo slargarsi di paesaggi con case e fughe di alberi e di monti e la luce che bagna le cose ed un sapore dolceaspro di solitudine. Emblematico, in proposito, “La strada bianca”, dove quel gruppo di case, gli alberi e lo sterrato evocano uno di quei  pomeriggi estivi calcinati di sole, il silenzio rotto solo dal frinire delle cicale.

  La luce dicevo, sparsa sulle cose come a vestirle di riflessi che però scaturiscono dall’interno, perché così Giorgio Morandi sente la pittura, un andare oltre il velo e cogliere ciò che non si vede. Le cose più che gli esseri umani, pressoché assenti nella sua pittura, perché nelle prime v’è una fissità sostanziale che altrove sfugge (non a caso l’unica figura completa è il suo Autoritratto, raffigurato alla stregua di uno degli oggetti a lui cari). Un intimismo che dà quasi una connotazione estatica alla sua pittura. Giorgio Morandi come un pittore Zen.

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    “Giorgio Morandi”, al Complesso del Vittoriano fino al 21 giugno.

Da lunedì a giovedì 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22, domenica 9,30-20,30.

Biglietto intero 12 euro, ridotto 9. Per informazioni 06.6780664-6780363

  www.comunicareorganizzando.it. .

 

 

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