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I dipinti d’Elci

DanieleDaVolterra_02a  Quegli affreschi della Sistina, con le loro nudità ostentate, erano troppo audaci e di certo il Concilio di Trento non poteva tollerare la mancanza di veli in un cotesto religioso, di un’opera che doveva edificare lo spirito. Così della censura venne incaricato un pittore toscano da poco trapiantato a Roma, il quale panneggiò le pudenda di molte figure del Giudizio Universale e per questo venne chiamato “Il Braghettone”. Un termine fra ironico e dispregiativo che gli permarrà nei secoli, termine quanto mai riduttivo perché Daniele Ricciarelli, detto Daniele da Volterra, è un pittore che si distingue nel fermento artistico della Roma della Rinascenza.

  Una città che sta faticosamente sanando le profonde ferite infertele dal Sacco del 1527, immenso cantiere voluto da Paolo III Farnese, grande mecenate di letterati ed artisti, da Pietro Bembo a Michelangelo. Il giovane Daniele, che si era formato a Siena, a contatto con personalità di rilievo, come il Sodoma e Peruzzi, trova a Roma un ambiente a lui congeniale. E prima è accanto al Peruzzi in Palazzo Massimo alle Colonne, dove affresca le Storie di Fabio Massimo, il mitico iniziatore della casata, poi a Perin del Vaga, allievo di Raffaello, sui cui cartoni imposta gli affreschi della cappella del Crocifisso in San Marcello al Corso.

  Che sia un pittore di talento lo dimostra affrescando la cappella di Elena Corsini a Trinità dei Monti, “onde Daniello mettendo ogni sforzo e diligenza per fare un’opera rara la quale il facesse conoscere per eccellente pittore, non si curò di mettervi le fatiche di molti anni”. Così scrive il Vasari sottolineando lo sforzo che egli fece per condensare nelle pareti della cappella il frutto maturo della sua esperienza pittorica, che spazia dai senesi fino a Raffaello e Michelangelo. Oggi resta solo la splendida “Deposizione dalla croce” che, nell’impianto strutturale, ricorda l’analoga opera di Rosso Fiorentino.

  E frutti maturi sono anche le due opere in visione nella Galleria Corsini, mostra a cura di Barbara Agosti e Vittoria Romani,  “I dipinti d’Elci”, provenienti dalla collezione privata dei Conti Pannocchieschi d’Elci, il cui palazzo si affaccia sulla senese piazza del Campo. E’ la prima volta che i due quadri vengono esposti, quindi un evento artistico di grande interesse non solo per il fatto in sé ma perche -e soprattutto- in quanto si tratta di due capolavori che esprimono il meglio della cultura pittorica della Roma cinquecentesca.

  Se le due figure di riferimento, come influsso stilistico, sono Raffaello e Michelangelo, pure “Elia nel deserto” e “Madonna con il Bambino, san Giovannino e santa Barbara” rivelano una loro autonomia narrativa. Soprattutto la prima, nella plasticità della figura del profeta e nei particolari, il pane e la brocca d’acqua, chiara allegoria eucaristica, in linea con i precetti tridentini. Un tocco morbido ma insieme deciso, che mette in risalto il personaggio di Elia e diventa quasi pastoso nel panneggio e dolcemente sobrio nello sfondo, un panorama di valli e colline con una città che adombra l’Urbe (forse il Pantheon in primo piano). Notare la mancanza dell’angelo, come da iconografia tradizionale, particolare che denota una personalità artistica fuori dagli schemi.

  Un magnifico dipinto su tela che data agli inizi dell’attività romana di Daniele, a fianco di Perin del Vaga, lavoro dove appaiono trasfuse la delicatezza di Raffaello e l’imponenza di Michelangelo, ma nel giusto equilibrio. Ovvero non siamo ancora in  quell’alveo del Manierismo che caratterizzerà molta pittura della seconda metà del XVI secolo. Vi si accosta in parte l’altra opera qui esposta, “Madonna con il Bambino”, olio su tavola che, nella composizione d’insieme, seppur rivela una struttura spaziale complessa, dalle suggestioni michelangiolesche, non ha il sapore della novità come il quadro di Elia. Vedi san Giovannino che indica il cartiglio e la figura di santa Barbara, sanno di iconografia classica, un po’ teatrale, ma ciò non toglie che il tutto risulti di grande effetto.

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  A lato delle opere sono le riflettografie analizzate da Angela Cerasuolo, responsabile del Centro Documentazione Restauro della Soprintendenza, Museo di Capodimonte, che hanno permesso un approfondimento critico delle opere stesse. E queste sono poi messe a confronto con altri due importanti lavori esposti nella Corsini, “L’annunciazione” di Marcello Venusti e “Sacra Famiglia” di Jacopino del Conte, entrambi attivi a Roma in quel periodo. Manieristi di buona fattura, in particolare Jacopino, allievo di Andrea del Sarto, la cui “Sacra famiglia” si distingue per grazia ed eleganza (di Jacopino si possono ammirare gli affreschi in quel tempio del manierismo toscano che è la chiesa romana di San Giovanni Battista Decollato).

  Daniele fu anche scultore e, con Michelangelo, del quale era amico, progettò il monumento equestre di Enrico II, suscitando le gelosie del Vasari. Dunque una personalità poliedrica, come del resto era quasi norma durante la Rinascenza, un artista riproposto al pubblico grazie ad un’intelligente sinergia pubblico-privato. “Ritengo che il dialogo tra il museo e l’universo del collezionismo possa innescare un circolo virtuoso di conoscenza, scoperta e condivisione pubblica del nostro patrimonio artistico”, scrive nella prefazione del catalogo Flaminia Gennari Santori, direttore del Museo. Una strada da seguire per il futuro.

“Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci”, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Galleria Corsini, fino al 7 maggio. Da mercoledì a sabato 14-19,30, domenica 8,30-19,30. Euro 5 intero, ridotto 2,50, integrato Palazzo Barberini-Galleria Corsini (valido 3 giorni) euro 9.

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