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L’elefante sotto la collina

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                                                              L’elefante sotto la collina

di Antonio Mazza

   Anche se è trascorso quasi un secolo fa comunque effetto vedere i vecchi filmati del Luce che documentano le demolizioni nell’area dei Fori, due successive campagne condotte nel cuore della città. Una città, Roma, già offesa dopo il 1870, ferita dalle grosse speculazioni edilizie, vedi lo scempio della Villa Ludovisi Boncompagni per la quale si mobilitò, inutilmente, il mondo della cultura. Sotto il regime di Casa Savoia ci furono non pochi sventramenti urbani, come a piazza Venezia, con il Vittoriano, oggetto alieno (meglio noto come la “macchina da scrivere”) finché Ciampi lo umanizzò. Per tirarlo su vennero distrutti monumenti  insigni quali il convento dell’Ara Coeli, la Torre di Paolo III, l’Arco di San Marco che collegava Palazzo Venezia all’area sacra. La febbre edilizia, con lottizzazioni di spazi anche storici contrassegnò gli anni seguenti, poi, dopo un periodo di stasi, con il fascismo ricominciò la voglia del piccone. Ed ecco, nel 1924, l’intervento sul quartiere alessandrino, nuove demolizioni che incidono sulla parte storica, ma non quanto la successiva campagna del 1932, per aprire Via dell’Impero, dove celebrare i fasti del regime. E, scavando in fretta, che il decennale della Marcia su Roma era prossimo, molto si distrusse e poco, ma interessante, si salvò, come si evince dalla mostra “1932, L’elefante e il colle perduto”, in corso ai Mercati di Traiano. E’ articolata in quattro sezioni, un cammino a ritroso nei secoli che copre un arco temporale dal 1500 al Pleistocene, seguendo quell’ormai sperimentato  criterio stratigrafico che permette di “leggere” la straordinaria storia della nostra città.

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  1932, anno X E.F., cominciano i lavori e, come già detto, mancando poco tempo al decennale della Marcia su Roma, si procede senza una pianificazione precisa, sbancando il colle della Velia, che collegava il Palatino all’Esquilino (supervisore dei lavori è Antonio Munoz, Direttore della X Ripartizione Antichità e Belle Arti del Governatorato di Roma). Dal terreno affiorano materiali vari, soprattutto ceramiche, pezzi e/o frammenti di epoca romana, medioevale e rinascimentale. Se ne riempiono casse e casse e l’allestimento qui esposto in sala dà l’idea della quantità di elementi raccolti alla rinfusa e, ovviamente, decontestualizzati. Ma i danni non sono solo questi, ne appaiono di ben peggiori, come documentano le vedute che il Governatorato di Roma commissiona a Maria Barosso e Odoardo Ferretti (all’epoca, quale testimonianza di un evento di cesura, come la Roma mutilata dagli stravolgimenti urbani, si preferiva la pittura alla fotografia, questa asettica rispetto all’altra più “umana”: era ancora viva la lezione di Roesler Franz). Viene in parte sacrificata la sontuosa Villa Rivaldi, costruita nel 1542 e passata per varie mani, fino a divenire Conservatorio delle Zitelle Mendicanti. Consisteva in un corpo centrale con vari cortili, ninfeo, un magnifico giardino e una zona destinata a vivaio. Una vasta area che scompare sotto i colpi del piccone e restano solo le immagini ad olio e gli acquerelli a documentarne la bellezza perduta, mentre di quella sottostante la villa ci sono pervenuti solo frammenti di affreschi e l’ideale ricostruzione pittorica di un imponente complesso di epoca imperiale completamente demolito nella campagna di scavi.

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  Era una ricca domus su due livelli, nel piano terra il criptoportico con ninfeo e, al livello superiore, un cortile porticato a pianta rettangolare. Notevoli i cicli pittorici di epoche diverse, l’uno fine I inizi II secolo, l’altro fine II inizi III secolo d.C., affreschi di fine fattura, come si può desumere dai frammenti in mostra. Una serie di riquadri dove figurano animali e personaggi, peraltro riprodotti anche dal Ferretti nella sua documentazione pittorica di uno scempio (il poco materiale marmoreo salvatosi è ora nella Centrale Montemartini). Ma la vera, grossa sorpresa è giù nel sottosuolo, ben nascosta a 11 metri dalla sommità della ormai ex collina della Velia. Dall’antico strato geologico risalente al pleistocene, quando la zona era un alveo paludoso, emergono le gigantesche ossa di Elephas Antiquus, un mammifero che, con altre specie di cervidi e bovidi, era la fauna comune di 200mila anni fa (vedi anche il ricco giacimento paleontologico racchiuso nel Museo di Casal de’ Pazzi). Quindi l’eccezionale testimonianza di un passato remotissimo, che il Barosso immortalò nei suoi acquerelli, e, anche se lo scheletro di Elephas non ci è giunto integro (parte del cranio e una zanna), tanto basta per restarne ancora impressionati.

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  Perché quelle ossa ci parlano dell’infanzia del mondo.

“1932, l’elefante e il colle perduto” ai Mercati di Traiano fino al 24 maggio. Tutti i giorni h.9,30-19,30, biglietto integrato Mercati- Museo dei Fori euro 13 intero e 11 ridotto (per i residenti a Roma euro 12 e 10). Gratuito con la  MIC Card. Consigliata la prenotazione. La mostra, a cura di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Isabella Damiani, Stefania Fogagnolo, Massimiliano Munzi, è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con la collaborazione dell’Archivio Luce. Organizzazione Zètema Progetto Cultura.

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