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Antonio Donghi, pittore gentile

"Gita in barca", 1934.

                                                Antonio Donghi, pittore gentile

Di Antonio Mazza

  Fino a pochi anni fa, a Roma, all’incrocio fra via Merulana, via Labicana e viale Manzoni, non si poteva non notare i ruderi di un palazzo primo novecento. Erano i resti della facciata dell’Ufficio d’Igiene, inaugurato nel 1929 e poi demolito nel 1957 per essere ricostruito, cosa che non avvenne. Rimase solo la parte su via Merulana, un moncone destinato a deturpare il paesaggio urbano per oltre quarant’anni finché, nel 2004, l’inizio della rinascita. Quanto restava del complesso venne preso in carico dalla Fondazione Elena e Claudio Cerasi che, grazie ad un accurato restauro filologico, restituì al palazzo la sua originaria fisionomia in stile eclettico di gusto umbertino. Ed ora è divenuto un luogo di cultura, che ospita in permanenza la magnifica collezione d’arte Cerasi, soprattutto Scuola Romana, e periodicamente mostre importanti. Come “Antonio Donghi. La magia del silenzio”, a cura di Fabio Benzi, prodotta da Coopculture che gestisce il museo di Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, con il sostegno della Regione Lazio e patrocinio gratuito di Roma Capitale, Main Sponsor Unicredit che ha contribuito con sedici prestiti (sul web è consultabile UniCredit Art Collection).

"Cacciatore", 1924.

“Cacciatore”, 1924.

  Nato nel 1897 Antonio Donghi frequenta giovanissimo (1916) i corsi del Regio Istituto di Belle Arti di Roma e comincia ad esporre già negli anni ’20, con un tocco stilistico che si può ben definire tardo impressionista (come traspare da “Basilica di Massenzio”, 1920, “Minatore”, 1922, “La Fontana dei cavalli marini”, 1922). D’altronde è il clima pittorico dell’epoca, molto variegato, clima che la mitica Galleria d’Arte Bragaglia, a Roma, con il suo raffinato gusto per le avanguardie, ben interpreta. Futurismo, Secessione Romana, Nuova Oggettività, Espressionismo, un crogiuolo di creatività che accoglie il giovane Donghi, in particolare fascinato dalla poetica di Ubaldo Oppi, uno dei fondatori di “Novecento Italiano”. Di questa scuola  lui recepisce la tendenza ad un naturalismo figurativo che trova un perfetto connubio con la sua cultura pittorica che si nutre del passato ma in maniera critica (scrive nel 1935: “Ho guardato i grandi del passato, senza esagerare, ossia senza prendere da essi motivi di composizione e atteggiamenti”).

"La pollarola", 1925.

“La pollarola”, 1925.

  Nell’opera di Donghi ciò che risalta non sono i rimandi estetici quanto piuttosto il clima interno, l’aura che avvolge personaggi e cose, quella purezza e quella luce, l’una intrinseca alla pittura del ‘400 e l’altra del ‘600 (come parametri ideali penso a Piero della Francesca e Caravaggio). E’ la formula che decreta il suo crescente successo, con il supporto di critici quali Ugo Ojetti e Roberto Longhi, che lo definisce “gentileschiano”. In effetti tale è, un artista che si esprime con mano lieve, pennellate dense e calde racchiuse in una morbida geometria di forme, come  “Paesaggio romano”, 1923, il “Cacciatore”, 1924, “Ponte Cestio”, 1924, “Via del Lavatore”, 1924, “Veduta di Roma”, 1925. E’ il suo “realismo magico”,   una narrazione per immagini dove la vita nel suo divenire appare sospesa in una rappresentazione che cela in sé qualcosa di sacro. Lo sguardo dei personaggi è fissato verso un oltre la tela ed imprime all’insieme, figure e cose, un che di rarefatto, metafisico quasi ma non in un senso alla De Chirico, inquietante, bensì un qualcosa di sereno: gentile, il termine esatto.

"Piccoli saltimbanchi", 1938, e "L'ammaestratrice di cani", 1946.

“Piccoli saltimbanchi”, 1938, e “L’ammaestratrice di cani”, 1946.

  E così la Roma degli anni ’20 che Donghi, avendo lo studio nel rione Trevi e in Trastevere, percepiva nella sua anima popolaresca (“Le lavandaie”, 1922, “La pollarola”, 1925). Un tratto leggero che va perfezionandosi nel tempo e lo confermano il filone circense, “Il giocoliere”, 1936, “Piccoli saltimbanchi”, 1938, “L’ammaestratrice di cani”, 1946, nonché le vedute e i ritratti singoli o di gruppo. “Paesaggio (Toscana Monte Amiata)”, 1934, “Gita in barca”, 1934, forse il suo capolavoro (e logo della mostra), “Figura di donna”, 1937, “Caccia alle allodole”, 1942, opere dove all’ariosità degli sfondi naturali fa riscontro l’intimismo un po’ malinconico delle figure umane. E’ la componente meditativa quale immagine speculare del carattere schivo e riservato di Donghi che, pur avendo realizzato nel 1937 un “Ritratto equestre del Duce”, non si schiera in alcun modo (il dipinto peraltro non è accolto bene essendo poco o nulla in sintonia con la retorica di regime).

"Ritratto equestre del Duce", 1937.

“Ritratto equestre del Duce”, 1937.

  La sua carriera, come già accennato, è un crescendo di successi. Mostre in Italia, nei paesi europei ed oltreoceano, negli Stati Uniti, dove esporrà più volte, e in America Latina, a Buenos Aires. Partecipa alla Biennale di Venezia ed alla Quadriennale di Roma, coerente con il suo linguaggio di purezza figurativa che, nel dopoguerra, lo pone a confronto con le nuove correnti. Astrattismo, Informale, lo Spazialismo di Lucio Fontana e Donghi ne risulta un po’ emarginato rispetto alla cultura ufficiale, ma è comunque sempre ospite d’onore alle Biennali e Quadriennali di quegli anni. Si dedica soprattutto alle vedute, “Castello (Arsoli)”, 1946, “Paesaggio. Veduta di città di Castello”, 1946, “Fabbrica di Roma”, 1946, che, a mio parere, sintetizza la sua poetica. In primo piano il tratto delicato dell’albero e degli arbusti e, sullo sfondo, il Monte Soratte come un’isola in una terra vergine, ancora non antropizzata come oggi. E su tutto il silenzio, il magico silenzio che impregna le tele di Antonio Donghi.

"Fabrica di Roma", 1946.

“Fabrica di Roma”, 1946.

 “Antonio Donghi. La magia del silenzio” a Palazzo Merulana fino al 26 maggio. Da mercoledì a domenica h.12-20, biglietto euro 12 intero e 10 ridotto (comprensivo della visita alla Collezione Cerasi). Per informazioni www.palazzomerulana.it

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