Quel geniaccio di Salvador
Quel geniaccio di Salvador
di Antonio Mazza
Dalì, naturalmente, una figura chiave del Surrealismo, movimento artistico letterario fondato da André Breton nel 1924. Lui e il suo grande amico-rivale, Pablo Picasso, del quale subì dapprima il fascino e quasi ne imitava lo stile poi se ne dissociò perché lui, a differenza del collega andaluso che puntava solo a stravolgere i canoni accademici, non rinnegava la tradizione. Un rivoluzionario conservatore, per così dire, e tale risulta dalla mostra a Palazzo Cipolla, Museo del Corso-Polo Museale, “Dali, Rivoluzione e Tradizione”, promossa dalla Fondazione Roma in collaborazione con la Fundacio Gala-Salvador Dali con il supporto organizzativo di MondoMostre ed il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna in Italia. Un Dalì piuttosto inedito, in continua sperimentazione, ma senza mai dimenticare il glorioso passato della pittura europea, al contrario del suo amico-rivale Pablo.
E Pablo è all’inizio del suo cammino artistico (“Autoritratto”, 1896), presente in opere figurativamente complesse come “Venere e il marinaio” (1925) e “Figure sdraiate sulla sabbia” (1926) o di colorita struttura geometrica come “Pierrot con chitarra” (1923) e “Tavolo di fronte al mare. Omaggio a Erik Satie” (1926), nonché le varie Nature morte. L’impostazione e lo sviluppo narrativo hanno un evidente stigma cubista e tuttavia qualcosa sta a presagire un cambio di rotta, già potenziale in “Ragazza di Figueres” (1926), che il giovane Dalì, in viaggio a Parigi, mostra al più anziano Picasso. Decisamente figurativo il quadro dove sullo sfondo compare la chiesa della cittadina catalana e, più lontano, la catena montuosa, il tutto rappresentato con un deciso tocco realistico, compresa la figura femminile. E’ qui, dunque, che Dalì non dimentica la Tradizione, anzi, le rende omaggio.
I classici, figure fondamentali nella storia dell’arte, figure il cui messaggio pittorico trova nella ricerca stilistica del giovane Salvador un momento di meditazione trasfigurato però in maniera del tutto personale (e volutamente provocatoria). Oltre al nume amato-odiato, Picasso, s’impongono tre grandi, Vermeer, Velàzquez e Raffaello. Ed è proprio in “Autoritratto con il collo di Raffaello” (1921), logo della mostra, che emerge la nostalgia di un passato da reinterpretare, nel segno di quell’apparente contrasto tadizione-rivoluzione che sarà il tratto peculiare della poetica di Dalì (il divino Raffaello è qui presente con “Autoritratto”, 1506, prestato dagli Uffizi). Innovare senza rinnegare e questo significa anche elaborare una teoria a sostegno di un percorso tutto da esplorare, ovvero “50 segreti magici per dipingere” (1948), le cui illustrazioni sono esposte per la prima volta, una serie di grafiche dove il gusto per il rinascimento italiano e quello per la sperimentazione trovano un ideale punto di fusione.
Ma c’era già un precedente, il “metodo paranoico-critico”, frutto del rapporto con l’amico- rivale Pablo, la pittura come spazio dove convergono sogno e allucinazione in chiave psicanalitica (direi più Jung che Freud), e due ottimi esempi sono “Elementi enigmatici in un paesaggio” (1934) e “L’immagine scompare” (1938). Qui vien spontaneo citare il motivo ricorrente degli orologi o delle formiche ma restiamo in tema ed ecco il particolare effetto che provoca Velazquez rivisitato, il celebre quadro de “Las Meninas”, un classico della pittura ispanica del ‘600. “La Perla. L’infanta Margarita d’Austria” (1981), con il volto della fanciulla nascosto dalla sfera preziosa ha un che di ludico, pur nel suo rispettoso volgersi ad un grande artista del passato.
In effetti la componente giocosa è sempre lì fra le righe perché Dalì sa plasmare la materia nobile con un ben calibrato tocco istrionico ed è questa la sua genialità. Così “Busto di Velazquez che si metamorfizza in tre personaggi che conversano” (1974) o, accostandosi a Vermeer e recependone quel clima sospeso, di plastica tensione, collegare “La merlettaia” (ripresa in una copia ed in uno studio) al corno di rinoceronte (memorabile la sua performance allo zoo di Vincennes nel 1955). Ed anche la classicità di Raffaello, la bellezza delle forme, quell’armonia disvelata nei viaggi a Roma, diviene oggetto di sperimentazione al limite del metafisico, come in “Testa raffaellesca che esplode” (1952) o “La velocità massima della Madonna di Raffaello” (1954). E che il maestro urbinate sia il suo principale punto di riferimento lo testimoniano il dittico “La scuola di Atene” e “L’incendio di Borgo” (1979), opera stereoscopica, ma soprattutto “Allucinazione raffaellesca” (1979), di eterea suggestione.
E’ la vena religiosa che ora impregna gli ultimi anni della vita e della produzione artistica di Dalì, già potenziale in “L’ascensione di Santa Cecilia” (1955) ed ora approfonditasi con la teoria del “misticismo nucleare” e le cognizioni di fisica quantistica (il risultato è l’inquietante “Alla ricerca della quarta dimensione”, 1979). Una nuova ricerca, come le tante che hanno caratterizzato la sua poliedrica attività pittorica, la cui ispiratrice è la moglie Gala, alla quale ha più volte reso omaggio (vedi “Dalì di spalle dipinge Gala di spalle eternizzata da sei cornee virtuali provvisoriamente riflesse da sei specchi veri”, 1972-73). E poi foto, documenti, filmati in uno dei quali, intervistato, a chi gli chiede in quale epoca avrebbe voluto vivere risponde il Rinascimento italiano ma preferisce il suo tempo perché all’epoca erano grandi e non lo avrebbero neanche notato mentre ora è tutta mediocrità e lui solo risulterebbe un grande.
Istrione sì, ma di razza.
“Dali rivoluzione e tradizione” a Palazzo Cipolla fino a 1 febbraio 2026. Lunedì h.15-20, martedì-mercoledì h.10-20, giovedì-venerdì h.10-21, sabato-domenica h.9-21. Biglietto euro 18 intero 16 ridotto. Per informazioni www.museodelcorso.com/dali-rivoluzione-tradizione












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